Il nono mondiale di Marc Marquez è realtà, la storia del ritorno e del successo del più forte di tutti.
In un pomeriggio giapponese, quello dal sole pallido che, dall’altra parte del globo, si trasforma climaticamente in una mattina d’inizio autunno, grigia e con il ticchettio delle gocce di pioggia sul davanzale. Un sottofondo quasi silenzioso rispetto al rombo stridente di ciò che arriva dalla terra dei Samurai, quelli che hanno la gloria nelle viscere e la gloria la ricercano nella battaglie che il tempo offre, che l’avversario (diverso di volta in volta) propone come se fossero destini affilati.
Un Samurai dell’azzardo e della follia nasconde anche i sentimenti più intimi, quelli che dietro ad un casco popolano la mente di chi non può proprio pensare di pensare, di chi ha nella velocità il cuore pulsante di ogni singolo battito, il Samurai Marc Marquez. La nona sinfonia, annunciata da tempo come uno di quei concerti a cui non si può proprio mancare, una di quelle band reunion che farebbe impallidire anche gli Oasis per importanza, imprevedibilità e forza.
In un pomeriggio giapponese il ragazzo di 32 anni confeziona, impacchetta e mette in bacheca il nono mondiale della sua leggendaria carriera perché, si, si fa fatica a trovare altri aggettivi che non comprendono la leggenda e la mitologia. E’ una questione di numeri, di tenacia e di redenzione, di capacità smodate e di una forza di volontà che cancella limiti e preconcetti, che distanzia per una frazione di secondo i pensieri più lucidi e che porta, quasi inevitabilmente, ad una nuova consapevolezza ed una strana maturità. E’ la leggenda del “Proiettiano” Cavaliere Nero, vestito da un anno in rosso e che non si può tanto disturbare, pena una rivincita che ha pochi precedenti nella storia del motorsport.
Marquez ha ridefinito quello che lui stesso aveva definito nel corso di una decade, di un pilota che non è soltanto tale, di un trapezista funambolico che non guida ma balla come se ogni curva fosse un canto del Cigno, la ballata più stridente e difficile da accompagnare con il gas in mano e la sensazione onirica di essere sempre sul filo, pronto alla caduta e alla risalita.
Già, perché l’ultimo lustro del nove volte campione del mondo è stato proprio questo: un romanzo che non riusciva a trovare un lieto fine, una concatenazione di storie complicate e di cicatrici che avrebbero abbattuto anche un Megalodonte, ma lui no. Trafitto ma non sconfitto, dalle stanze spoglie e bianche di cliniche, dalle luci artificiali delle sale operatorie passando per quella sensazione opprimente di essere quasi ferraglia, quasi passato e prigioniero del passato che non torna.
Nel pomeriggio giapponese di inizio autunno Marc Marquez rivede se stesso mentre il mondo lo vede osservare ciò che è stato e ciò che in questo momento sta succedendo; rimettersi un attimo i capelli a posto mentre la lacrime ed il sudore mescolano sensazioni e ricordi che, ora, appartengono a quel passato che è stato chiuso e sigillato, confezionato a tempo debito come se fosse un titolo del mondo. Sembra quasi le scena di uno di quei film che hai bisogno di rivedere almeno quattro volte per capirne il significato ed altre tre per concepirne il finale fino ad accettarlo, cercando spiegazioni diverse a seconda dello stato d’animo con cui lo si guarda.
Marquez e la sua Ducati, che oggi splende a 360° con il ritorno di colui che potrà essere un degno avversario nel 2026, Pecco Bagnaia; è fiammante nel suo rosso così italiano e così spregiudicato, come lo stile di guida dello spagnolo volante, in equilibrio sopra la follia mentre il 93 è pronto a tornare 1, perché forse non è mai andato via e perché forse ogni singolo appassionato aveva bisogno di questo momento qui. Del ritorno del più forte, come un’araba fenice, Marc Marquez.