Mario Andretti, campione di Formula 1 1978, racconta in esclusiva la sua storia da un campo profughi in Italia al tetto del mondo.
“Ho cominciato a correre nel 1959 e ho corso l’ultima gara da professionista nel 2000, a Le Mans. Questa è stata la mia carriera: un sogno per me“. Queste parole di Mario Andretti riassumono la carriera e l’uomo dietro a uno dei piloti più forti di tutti i tempi. Un uomo che ha trasformato un “sogno impossibile” nato tra i campi profughi in Italia e le tribune di Monza in una realtà fatta di infinite vittorie tra Europa e America.
In questa intervista esclusiva, Andretti ci accompagna in un viaggio nei suoi ricordi: l’infanzia a Montona con il fratello gemello Aldo, l’arrivo in America e le prime gare clandestine a Nazareth, la gloria in Formula 1, Indycar, Nascar e non solo. Con lucidità e passione, “Piedone” racconta la sua storia tra Italia e America, gli incontri con Enzo Ferrari e Colin Chapman, la tragedia di Ronnie Peterson e l’orgoglio di creare una dinastia nel mondo delle corse con la sua famiglia.
Un viaggio che attraversa epoche, piste, categorie e continenti, sempre con lo stesso fuoco dentro che arde senza mai spegnersi: l’amore per la velocità.
Come stai? Sei reduce dalla Indy 500.
“Di salute sto benissimo. Riguardo la Indy 500, è stata un po’ una delusione, ma ci siamo rifatti la settimana dopo a Detroit con la prima e la terza posizione. La squadra è a posto, insomma, siamo competitivi”.
Tu l’hai vinta, la Indy 500. Cosa si prova a vincere quella gara che è considerata da tutti una delle più importanti del motorsport?
“Ti cambia la vita in positivo. Vale come un campionato qui in America: ha una tradizione talmente ricca che si disputa da 109 anni”.
Ripercorriamo la tua carriera, la tua vita, non solo nel motorsport. Sei nato a Montona, allora in Italia, e sei poi passato a Lucca, nei campi profughi, prima di trasferirti negli Stati Uniti. Proprio a Montona, con tuo fratello gemello Aldo, hai cominciato a costruire delle piccole macchine di legno e iniziare a correre. Com’è nata la tua passione per le macchine?
“Non so perché: a mio padre non interessava; avevo uno zio, Bruno, che girava sempre con la moto. La passione vera è iniziata quando ci siamo spostati a Lucca, perché eravamo un po’ più grandi e abbiamo visto quanto fosse popolare la Formula 1 negli anni Cinquanta: Farina ha vinto la prima gara di sempre, Alberto Ascari è diventato campione del mondo con la Ferrari, c’erano case come la Maserati. Era molto attraente per noi. All’età di undici, dodici anni abbiamo cominciato a sognare, poi alcuni amici ci hanno portato al Gran Premio di Monza del 1954, all’età di quattordici anni: vedendo la gara così, è incominciato il sogno impossibile di diventare piloti, che è diventato un po’ più realtà quando ci siamo spostati in America, perché c’erano più opportunità. Due anni dopo il nostro arrivo in America, abbiamo cominciato a costruire una macchina per correre vicino alla nostra casa. C’era una pista di terra, una cosa che in quei tempi era molto popolare, con gare ogni settimana. Abbiamo cominciato a correre proprio qui a Nazareth nel 1959, all’età di diciannove anni. Non era legale per noi, eravamo troppo giovani: bisognava avere ventuno anni per via dell’assicurazione e altre cose. Allora abbiamo mentito, dicendo di avere esperienza in Formula Junior con la Stanguellini in Italia. Siamo stati accettati, Aldo ha vinto la prima gara e io la seconda. È stato un esordio bellissimo e così è cominciato tutto per me. Ho cominciato a correre nel 1959 e ho corso l’ultima gara da professionista nel 2000, a Le Mans. Questa è stata la mia carriera: un sogno per me”.
Hai iniziato a correre con tuo fratello Aldo, nascondendolo a vostro padre Gigi per via dei pericoli.
“Sì, mio padre non voleva che corressimo perché il motorsport era pericolosissimo: il mese prima che noi partissimo per l’America, durante delle prove a Monza era morto il nostro idolo, Alberto Ascari, e a Le Mans erano morti ottantacinque spettatori, mentre noi eravamo sulla nave Conte Biancamano nell’Atlantico. Noi potevamo tenerlo nascosto solo grazie al fatto che lui non capiva l’inglese e non poteva leggere quello che scrivevano i giornali quando vincevamo le gare. È venuto a sapere del mio coinvolgimento solo quando Aldo ha avuto un brutto incidente nell’ultima gara della stagione”.
Aldo si è poi ripreso, prima di dire addio alla carriera nel 1969 dopo un altro incidente. Come hai vissuto quegli anni dal punto di vista della sicurezza e com’è stato vedere tuo fratello, con cui hai condiviso il tuo percorso, dover abbandonare questo sogno comune?
“Aldo era molto triste: provava il mio stesso amore per la guida. Io, però, non pensavo mai ai lati negativi e andavo avanti a tutti i costi. Non solo Aldo, ma molti nostri amici hanno perso la vita in quei tempi. In quegli anni, il nostro sport era molto pericoloso: non c’era sicurezza né nei circuiti né nelle auto. Piano piano, però, le cose sono migliorate e oggi i piloti possono smettere quando vogliono”.
Tu, quindi, hai continuato a correre nei dirt track, poi nella Champ Car (l’attuale Indycar) e hai subito vinto il campionato nel 1965 da rookie in America. A fine anno sei andato da Johnny Carson, che ti ha introdotto come “rookie dell’anno” e non come campione della categoria e questo ti è un po’ spiaciuto. In generale, hai mai avuto l’impressione che i tuoi risultati venissero sminuiti a volte?
“Sì, nel 1965 sono arrivato terzo a Indianapolis dopo Jim Clark e Parnelli Jones e a fine anno ero contentissimo di aver vinto il campionato nazionale. Ero il più giovane al momento, avendo vinto all’età di venticinque anni. E come hai detto, a fine anno sono stato invitato a questo show molto popolare in televisione di Johnny Carson e lui mi ha presentato come “rookie dell’anno” a Indianapolis e non ha mai accennato il fatto che ho vinto il campionato. Questo mi ha fatto capire l’importanza di questa gara, la più importante del campionato. E sì, mi sono un po’ arrabbiato. Per quanto riguarda la mia carriera, io so quello che era importante, anche se la stampa pensava solo a Indianapolis. Il mio pensiero era arrivare in Formula 1 e vedere se potevo fare qualcosa lì”.
Poi, infatti, vinci altri due campionati IndyCar e nel 1968 debutti in Formula Uno a Watkins Glen, conquistando subito la pole position con la Lotus. Che emozioni hai provato?
“Sono stato contentissimo di avere la possibilità di essere in una Lotus, una macchina competitiva. Il mio esordio sarebbe dovuto essere a Monza due settimane prima: ho fatto le prima prove libere e sono rimasto piacevolmente colpito, non avendo mai avuto la possibilità di provare una Formula Uno. Era molto più agile di quello che ero abituato a guidare. Ho fatto la prima pole su una pista che non conoscevo, davanti al futuro campione del mondo Jackie Stewart. Non me l’aspettavo, ma è stato un momento importante perché mi ha fatto capire che ero pronto per la F1”.
Tre anni dopo, nel 1971, vinci la tua prima gara in Sudafrica con la Ferrari, al primo round stagionale. Cosa hai provato a vincere in F1 con la Ferrari, da una persona italiana e che aveva Ascari come idolo?
“È tutto. Il mio grande sogno, come quello di ogni pilota, era sempre la Ferrari. Avendo questa opportunità, è stato molto importante conoscere già tutti, come l’ingegnere Forghieri, perché avevo già corso con la Ferrari negli sportprototipi. Vincere la mia prima gara su una Ferrari è una cosa che ancora oggi significa molto per me”.
Nel 1978 hai vinto il mondiale con la Lotus a Monza, nel weekend in cui però il tuo compagno di squadra e amico Ronnie Peterson ha avuto un incidente fatale. Hai detto che avresti rinunciato alla vittoria pur di poterlo avere indietro. Cosa hai provato?
“Poteva essere il momento di gioia più importante della mia carriera, ma non potevo celebrare. Avevo perso il mio compagno di squadra e un grande amico, nel senso che le nostre famiglie erano sempre assieme. È stato come perdere un fratello”.
Nel 1979, hai capito dopo poche gare che c’era poco da fare per poter lottare per il mondiale. Nel 1980, addirittura, hai fatto solo un punto all’ultima gara della stagione. Cosa hai provato a non poter difendere il tuo titolo?
“Per quanto riguarda la Lotus, abbiamo visto che altre squadre hanno avuto più opportunità di sviluppare l’effetto suolo e mi dispiace tanto che gli ingegneri della Lotus non avevano migliorato la situazione come gli altri. La macchina non era competitiva. Potevo scegliere di andare alla McLaren o all’Alfa Romeo e ho scelto con il cuore l’Alfa Romeo, vedendo anche che Bruno Giacomelli era al comando della gara all’ultimo Gran Premio della stagione prima di avere un problema con il motore, quindi era una macchina competitiva. C’erano, però, dei problemi con il regolamento. I team dovevano alzare l’assetto della macchina e, uscendo ed entrando ai box, c’era una cassetta che lo verificava. Alla prima gara in Argentina, la Brabham aveva portato un sistema idraulico che permetteva di alzare la macchina e abbassarla dopo essere passati dalla cassetta: hanno vinto la gara in modo doppiando tutti gli altri piloti. Tutti sapevano che fosse contro il regolamento, ma tutti ce l’avevano tranne noi. Mi dispiace tanto, ma l’ingegner Chiti diceva che non potevamo usarlo e abbiamo sofferto molto durante quella stagione, nonostante sapessimo che la macchina era competitiva. Infatti, nelle prove al Paul Ricard a giugno ho chiesto all’ingegnere Giovanni Marelli di mettere l’assetto delle altre macchine ed eravamo subito competitivi. È stato proprio un peccato, perché sarei voluto rimanere ancora un paio di anni in Formula 1, ma alla fine sono tornato in America”.
Nel 1982 sei tornato in Ferrari, sostituendo Didier Pironi. Hai subito fatto la pole a Monza.
“Tengo molto anche a quell’esperienza, è un ricordo bellissimo. Avrei vinto la gara se non avessi avuto un problema al compressore sulla banca sinistra della macchina, che si è rotto a 5/6 giri dalla fine. Sono stato comunque fortunato ad arrivare sul podio: è stato un momento di gioia, perché ci tenevo tantissimo, essendo già fuori dalla Formula Uno da un anno e non avendo mai avuto esperienza con le macchine turbo. Era una situazione totalmente diversa. Avevo fatto le prove a Fiorano la settimana prima e mi sono trovato molto a mio agio con la macchina, infatti alla fine delle prove con la mappatura da qualifica sul motore ho fatto segnare il record della pista. Mi sentivo molto bene prima di andare a Monza”.
Hai lavorato con due degli uomini più famosi della Formula 1: Colin Chapman alla Lotus ed Enzo Ferrari. Come li hai vissuti e quali differenze hai notato?
“Avevano la stessa grande passione e volontà di vincere. Se sei fortunato ad essere con loro nel momento giusto, hai una concreta possibilità di vincere il campionato, come ho vissuto con Colin Chapman: quando lui si concentrava al centro per cento sulla situazione, si poteva davvero vincere il mondiale. In Ferrari, dall’altra parte, avevi sempre la possibilità, perché la Ferrari era sempre al top. Purtroppo, per quanto mi riguarda, mi hanno invitato a guidare al cento per cento con loro dopo che ho vinto la mia prima gara, ma i contratti che avevo in America me lo hanno impedito e, quando mi sono liberato, l’abitacolo era occupato. Non abbiamo avuto le possibilità nei momenti giusti per tutti e due”.
Durante la tua lunga carriera, tu hai corso con tantissimi piloti: qual è stato il più forte secondo te?
“Sono troppi, non posso dirne uno. Sono stato fortunatissimo di poter dire che ho corso con campioni notevoli”.
C’è un pilota in America che, secondo te, merita la Formula 1?
“Sì, secondo me Colton Herta, che ha corso in Europa per cinque anni quando ne aveva 16 e ora è tornato in America e corre con la squadra di mio figlio. Mi piacerebbe vederlo in Formula 1. Ci sono anche altri piloti in IndyNXT che potrebbero essere considerati. Si vedrà quando saremo al punto di affermare ufficialmente chi avremo in squadra”.
Parlando, appunto, della vostra squadra, com’è nata l’idea di espandersi dall’America alla Formula 1?
“L’idea è stata di mio figlio Michael. Io non ho mai avuto questo amore: per me guidare era l’unica passione che avevo per quanto riguarda le corse. Avrei potuto avere anche io una squadra, ma non ho mai avuto interesse. Adesso ne faccio parte, nel senso che consiglio in certe situazioni che riguardano i piloti, ma ufficialmente non ho una posizione da essere in sede ogni giorno”.
Tuo figlio Michael gestisce il Team Andretti e ha corso a sua volta, così come tuo figlio Jeff e i tuoi nipoti John e Marco. Cosa provi a vedere la tua famiglia continuare la tua passione?
“Orgoglio. Michael ha avuto una bella carriera come pilota e nel 1991 e 1992 siamo stati la prima famiglia con quattro piloti (io, i miei due figli Jeff e Michael e mio nipote John) a competere nella stessa stagione della CART. Siamo orgogliosi di questo”.
Parlando della tua famiglia, hai conosciuto tua moglie poco più che ventenne perché ti dava lezioni di inglese. Siccome lei non era già dentro il mondo delle corse, cosa pensava del tuo mestiere? Aveva paura che ti facessi male, come tuo padre?
“L’importante non è che avesse o meno una certa passione per le gare. Era spesso ansiosa, soprattutto quando la situazione non era tanto sicura come oggi e perdevamo amici, come abbiamo visto. Sono sicuro che ha passato dei momenti non tanto belli pensando a me, ma mi ha sempre supportato e questo era importantissimo. Lei era molto utile per tenermi sereno. Era una donna grandissima”.
Hai fatto una pole position in Formula 1 da giovanissimo e a 42 anni, hai vinto il campionato in IndyCar come il più giovane di sempre al tempo ma anche da quarantenne e il tuo ultimo successo è arrivato a 53 anni. Qual è il tuo segreto per essere stato competitivo così a lungo?
“Per me è stato sempre una grande passione. Quello che mi guidava era l’amore di guidare una macchina da corsa, sempre vivissimo nel mio cuore. Non vedevo l’ora di salire nell’abitacolo ogni settimana soddisfandomi al massimo. Lo farei anche oggi se potessi essere un po’ più giovane. Guidare una macchina da corsa per me era tutto“.
Hai corso in Formula Uno, IndyCar, Nascar, prototipi, Le Mans… Quale categoria ti è piaciuta di più?
“Senz’altro le monoposto. Mi sono divertito molto anche negli sportprototipi. Per quanto riguarda la Nascar, ero molto curioso di vedere se potevo fare bene: vincere la gara di Daytona, la più importante per loro, mi ha sorpreso. Però ero competitivo, perché sono stato in testa per 118 giri su 200. Ho avuto questa opportunità e sono assolutamente grato per questo”.
Qual è la gara o stagione di cui vai più fiero?
“Vincere il Gran Premio d’Italia a Monza. Lì si è proprio compiuto il mio sogno, perché è dove è cominciato tutto. In quei momenti all’inizio era un sogno impossibile. Ho vinto campionati in America, ma questo sogno… non potevo sperare niente di meglio”.
Hai detto che se non avessi corso in auto, avresti voluto fare il pilota d’aerei.
“Sì, però in realtà non avevo piani B o C; solo il piano A. Un eventuale piano B, però, sarebbe stato quello dell’aviazione, perché si parla sempre di velocità. Ho tanti amici che hanno fatto questa carriera e parliamo sempre delle stesse cose, abbiamo le stesse soddisfazioni a guidare qualcosa al limite”.
Foto: Formula 1.com, Wikipedia, Pirelli, Red Bull